STORIA DEL VENEZIANO
ALBERT GARDIN
Il Doge della calle accanto
George Orwell dice che i politici si dividono in due categorie: utopisti e realisti. Gli utopisti, con la testa tra le nuvole; i realisti, con i piedi nel fango.
Ebbene, io credo di aver trovato (da tanti anni, per dirla tutta…), l’ircocervo: un po’ la sintesi di queste due categorie.
Si chiama Albert Gardin. Egli è un “utopista realista”.
Il compito di noi cronisti, fondamentalmente dovrebbe essere quello di cercare storie che meritano di essere raccontate. Perché aggiungono qualcosa al nostro essere una comunità. Perché la arricchiscono di umanità. Di emozioni, perfino, di quelle che hanno la virtù di farci fermare nella nostra folle corsa, anche se magari per un solo istante. Quanto basta per farci raggiungere dal cuore.
Personaggio pittoresco ma non caricaturale, che potrebbe essere stato creato da Hugo Pratt per fare da ideale compagno di avventure al mitico Corto Maltese, Gardin è il 121esimo Doge della Serenissima Repubblica di Venezia. Se vi capitasse di imbattervi in lui vestito in tabarro e cappello a tesa larga, più neri del nero, sul Gran Liston veneziano, avreste pure voi la mia stessa impressione.
Gardin nasce il 13 marzo 1949 a Marsango, provincia di Padova.
Trascorre l’infanzia a Parigi. Da sempre attratto e interessato alla politica, Albert si iscrive alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova. La abbandona in seguito a causa del clima di intolleranza tra le componenti studentesche ideologizzate ed estremiste e per la contestuale rassegnazione dei docenti, che vi si respirava.
Nel 1970, studiate e metabolizzate le straordinarie esperienze del Mahatma Gandhi e di Martin Luther King, Gardin decide di impegnarsi politicamente per un cambiamento in Europa attraverso il ricorso esclusivo a tecniche della nonviolenza e del rispetto di chi non la pensa come noi.
Nel 1972, un giovane Albert compie il suo primo gesto di insubordinazione e rivolta, nel rifiuto del dispotismo statuale degli occupanti: si rifiuta di indossare la divisa militare. Dice no e per quel no viene arrestato e sbattuto dietro le sbarre per 4 lunghi mesi, con il marchio “infamante” dell’obiettore di coscienza.
Con Marco Pannella, Gardin mette in atto uno storico digiuno ad oltranza per ottenere dal Parlamento italiano l’approvazione di una legge sull’obiezione di coscienza. La mobilitazione si concluderà con un risultato positivo.
Al Congresso di Torino (tenutosi dall’1 al 4 novembre 1972), su proposta dello stesso Pannella, Albert Gardin viene eletto a membro della Segreteria nazionale del Partito radicale, direi un’esperienza importante, fondamentale per la sua formazione politica.
Negli anni restanti del 1970/1980, Albert si trasferisce a Padova, dove organizza e gestisce una importante scuola di lingua a carattere internazionale, l’Istituto “Bertrand Russell”.
Tra le diverse attività, il centro Russell, nel 1978, organizza, in collaborazione con lo storico esponente venetista Franco Rocchetta (di cui Gardin è amico), il primo corso di lingua veneta. Il corso farà da catalizzatore per tutte le persone interessate ai problemi veneti. E saranno queste a costituire la Liga Veneta.
Però Albert Gardin non aderisce di primo acchito alla Liga Veneta, bensì decide di continuare a coltivare esperienze e progetti per un’indipendenza veneta. Sul finire degli anni Ottanta, Gardin, per ragioni professionali, si trasferisce a Venezia, dove tuttora risiede.
Proprio il rapporto “viscerale” con Venezia lo porta ad approfondire le varie problematiche storiche e politiche della Repubblica Veneta.
Arrestati i Serenissimi per l’occupazione nel 1997 del Campanile di Venezia, Albert Gardin ne diventa di fatto il loro portavoce.
Nel 1997 fonda, con Bepin Segato e Viviana Cattani, il Congresso del Popolo Veneto. Questo organismo non riscontra una grande fortuna.
A Venezia, Gardin fonda una casa editrice, “Editoria Universitaria”, che pubblica negli anni oltre 1200 titoli su vari campi, molti dei quali di storia e letteratura veneziana. Memorabile la ristampa dell’”Iliade” scritta in veneziano da Giacomo Casanova.
Nel 2010, Gardin è invitato e accetta di presiedere il Governo Veneto sostenuto dalla LIFE.
Dopodiché, Albert si preoccupa a sostenere la formazione democratica di un Parlamento Veneto, che si scioglierà nel 2014 per confluire in un ricostituito Maggior Consiglio, nella prospettiva di ricomporre la Repubblica Veneta, per così dire “com’era e dov’era”.
E Gardin rimane in carica, in qualità di Presidente del Governo della Repubblica Veneta fino al 22 ottobre 2016: data storica, poiché Gardin quel giorno – come anticipavo qualche riga sopra – viene eletto dal Maggior Consiglio in Palazzo Ducale alla carica di Doge, divenendo il 121° Doge della Repubblica Veneta.
Pertanto non scherzo. E sono sobrio. Lui, Albert Gardin è sul serio il Doge 4.0 !
Io e lui ci conosciamo dalla metà degli anni Novanta. Cioè da quando iniziò il mio complicato “auto esilio” in provincia di Padova, a Limena: arrivavo dall’isontino per dirigere una emittente televisiva che copriva con le sue frequenze tutto il Nordest.
Un giorno me ne parlano, mi raccontano che Gardin è una figura unica, sui generis, di editore innamorato di tutto ciò che rende Venezia qualcosa di unico e speciale nel mondo: aveva creato e dirigeva (tuttora è così) la “Editoria Universitaria”, di cui scrivevo prima.
Incuriosito, lo invito ad una mia trasmissione del mattino: da quel momento, tra alti e bassi, le nostre traiettorie esistenziali non si sono mai separate del tutto. Lui, comunque, c’è sempre stato, quando l’ho chiamato. Lo stesso, spero possa dire di me.
Così è stato, ad esempio, quando gli ho rivelato che in archivio avevo conservato una preziosa intervista inedita con Giuseppe Bepin Segato, l’”ideologo” dei Serenissimi: una testimonianza preziosa e irripetibile, a pochi mesi dalla scomparsa prematura. Uno speciale che avevo registrato un pomeriggio intero a casa sua, una villetta a Borgoricco, nel padovano.
Albert era addirittura incredulo, forse pensando fosse uno scherzo di dubbio gusto che gli stavo facendo. Ricordo che quando gliene ho consegnato copia, ho visto nei suoi occhi accendersi la luce autentica della felicità. E della commozione. Perché Gardin è fatto proprio così: è un romantico, innamorato di chi, come lui, ama più di se stesso la venezianità vissuta come geniale manifestazione di una identità speciale, locale e cosmopolita assieme, che tutti ci hanno invidiato.
Purtroppo, “Doge” è una definizione che è stata, negli ultimi sciagurati anni, giornalisticamente svilita ed infangata da discutibili accoppiamenti con personaggi squallidi. Parlo di quella gentaglia senza decoro e dignità, che con una ipertrofica dose di dannosa megalomania ha solo saputo occupare il potere, usandolo spudoratamente a fini di arricchimento personale. A sprecare e contaminarne la storia, inoltre, è stato anche certo giornalismo ruffiano e complice con il palazzo, per istintiva convenienza da pelo sullo stomaco e avido carrierismo senza scrupoli.
Allora, Gardin è Doge, il 121esimo della storia, ma ne interpreta il ruolo, pur non delegittimando o dismettendo i riti e le forme connaturate alle alte funzioni (perché sa che la forma è sempre anche sostanza), non dismettendo mai una carica, una energia spontaneista inconfondibile: ed è per questa sua intelligente disponibilità, affabilità e umiltà che, per me, Albert è “il Doge della calle accanto”. Definirlo così non gli toglie solennità, semmai gli aggiunge amabile simpatia e umana cordialità.
Terminata l’ultima diretta su Canale Italia, l’ho preso in disparte e gli ho intimato: “Siediti lì che ti faccio una intervista per il Piave”. Non accettavo obiezioni. E questo che segue è il resoconto della chiacchierata tra me e lui.
Gli chiedo subito: ma scusa Albert, c’era bisogno di ricostituire di questi tempi la Repubblica Veneta?
Gardin mi lancia uno dei suoi sguardi, che non sai mai se sono di commiserazione o di compatimento o tutte e due assieme: “Che domande. Certo che ce n’era bisogno Gianluca, il mondo va verso una catastrofe politica e ambientale. La Repubblica Veneta è l’espressione di una cultura dalle radici profonde”.
Mi puoi spiegare che mansioni ha il Doge?
“Il Doge è il capo della Nazione Veneta, rappresenta l’unità nazionale come, in altri contesti, il Presidente della Repubblica o il Re. In questa fase ricostitutiva, il Doge è anche il capo del Governo, cioè dell’esecutivo. Dunque un ruolo politico molto importante”.
Dimmi un po’ Albert, qualche Stato vi riconosce e ha scambi con voi?
“Nessuno Stato ancora. Perché vedi, riconoscerci significherebbe, per certuni, ammettere le proprie responsabilità sull’occupazione della Serenissima o, per altri, di mettersi in contrasto con l’Italia e suoi alleati. Il nostro impegno non è comunque quello di elemosinare improbabili consensi di altri Stati, ma di aprire vertenze internazionali con i nostri occupanti o con chi, come Vaticano e USA, sono venuti a istallarsi indebitamente sui nostri territori. Queste vertenze sono già conferme della nostra presenza internazionale”.
E dimmi, in quale prospettiva vi mettete con lo Stato Italiano?
“Lo Stato italiano non ha mai concordato con il Popolo Veneto l’annessione dei nostri territori. Con l’occupazione sabauda del 1866, il neo-costituito Regno d’Italia ci ha imposto le sue leggi e la sua dominazione. Purtroppo non eravamo ancora pronti a resistere a questa prevaricazione che ci ha portato enormi guai. Ora le cose sono cambiate e la Repubblica Veneta ritrova forza per reagire e riprendere la sua sovranità. Arriveremo presto a un chiarimento che dovrà necessariamente concludersi con la nostra liberazione. Alla bandiera italiana subentrerà quella legittima del leone di San Marco!”.
Albert, sii sincero con me: per voi l’Italia sarebbe un’esperienza da chiudere?
“Beh, l’Italia, come Stato centralizzato sul modello francese, è un’esperienza fallita! Bisogna ritornare a una prospettiva di federalismo, di collaborazione privilegiata nell’area italiana, di una federazione aperta anche ad altre nazioni che hanno condiviso con noi importanti pagine di storia e che hanno affinità culturali, spirituali e politiche con noi! Prospettiamo una nuova Serenissima, una grande galassia di pace, di rispetto e di collaborazione”.
Anche voi siete euroscettici?
“Gianluca caro, ti rispondo che l’Unione Europea costituisce un’aggregazione basata sull’ambiguità e la prepotenza, dominata da organismi burocratici, marionette di poteri occulti finanziari. L’Unione Europea è subalterna alla NATO e agli Stati Uniti che la costringono a una politica di scontro con la Russia, parte irrinunciabile del mondo e della civiltà europei”.
Ma voi avete aperto un dialogo con gli Stati Uniti, mi spieghi perché?
“Semplice. Perché nel ritornare sulla scena internazionale, rivendicando la nostra libertà e sovranità, ci imbattiamo in una presenza nuova nei nostri territori, quella americana, con le sue basi militari strategiche di Vicenza e di Aviano. Una presenza determinata dalla sconfitta militare dell’Italia nell’ultima Guerra mondiale. Una eredità politica che non intendiamo fare nostra. Con gli Stati Uniti non siamo mai stati in guerra e vogliamo stabilire un rapporto di parità. Ciò comporta il bisogno di un chiarimento e di un necessario riposizionamento della presenza militare americana nella Venezia”.
Abbi pazienza, toglimi anche questa curiosità, Albert: la Repubblica Veneta ha richiesto di riallacciare rapporti con il Vaticano, cosa vi hanno risposto?
“Per ora la Santa Sede incassa soltanto la nostra accusa di complicità con l’occupazione italiana, avendo accettato l’assegnazione della Basilica di Sant’Antonio di Padova come parte dell’indennità per il saccheggio sabaudo di Roma, subito nel 1870. Il rapporto diplomatico tra Venezia e Vaticano riprenderà di fatto perché le relazioni tra Stato Pontificio e Repubblica Veneta sono rapporti reali e forti”.
Ogni anno “contro-celebrate” il Trattato di Campoformio, l’accordo del 1797 tra Francia e Austria per la spartizione della Serenissima, non sarebbe acqua passata o la questione resta ancora aperta?
“No! Le occupazioni francesi e austriache, confermate dal Congresso di Vienna del 1815, sono crimini antiveneti che richiedono riparazione. L’Europa senza la Repubblica Veneta per noi è solo un’impostura!”.
Ma mi dici una buona volta quale collocazione politica internazionale volete occupare?
“Vogliamo una collocazione nella continuità della Repubblica Veneta, essere artefici di pace, di collaborazione tra i popoli, di rispetto delle sovranità nazionali, di promozione di scambi per uno sviluppo internazionale equo ed onesto”.
E non temete, come sta succedendo in Catalogna, che le imprese venete si allontanino in caso di ritorno alla sovranità della Repubblica Veneta?
“Ma assolutamente no! Ma non esiste questo rischio. La Repubblica Veneta non diventerà il Paradiso in terra, ma sarà sicuramente meno infernale del regime che stiamo subendo! Vogliamo che la produzione, il commercio e il lavoro si sviluppino senza ingerenze mafiose e parassitarie”.
Che tempi vi date per raggiungere i vostri obiettivi finali?
“Senti un po’ Gianluca, non possiamo prevedere il futuro. La strada è dura, resa difficilissima dalla censura mediatica che tende ad oscurare la nostra politica. Ma sappiamo dribblare questi ostacoli e siamo determinatissimi a vincere la nostra lotta di liberazione e in tempi rapidi! Le premesse favorevoli ci sono tutte!”.
Capito? Gardin ci spiega che questo è l’orizzonte, che si nutre di memoria e di storia: dobbiamo superare il “venetismo”, ovvero una condizione di perenne, querula e sterile protesta.
Lui rivendica senza cedimenti: siamo una Nazione occupata da 220 anni!
Dall’Austria, dalla Francia e dal Regno d’Italia. E chiarisce, a scanso di equivoci: occupati, non domati. Non rassegnati. Non cancellati. E aggiunge chiaro e forte: vogliamo e dobbiamo definire la nostro posizione politica, autonoma e libera, ma anche religiosa, culturale e così via. Noi vogliamo, pretendiamo di trovare e avere una collocazione nel mondo. E non siamo la Catalogna, che è terra dalla storia acerba.
Noi siamo la Serenissima Repubblica di Venezia: incarniamo al contrario una civiltà antica, dalle radici solide, una civiltà illuminata e gloriosa che ha concorso in modo determinante a gettare le basi e creare la coscienza morale, religiosa e laica, civile, giuridica, culturale e scientifica dell’Occidente.
Tutto questo patrimonio, ci sprona il “Doge” Gardin, deve salvarsi: e siccome non lo può fare da solo, siamo noi a doverlo salvare. Anzitutto, per noi stessi. E per chi verrà dopo di noi, per i figli.
Se non lo facessimo, saremmo processati dalle loro coscienze, che implacabilmente un giorno ce ne chiederebbero la ragione.
Chi ha coraggio, muore solo una volta: i vigliacchi muoiono ogni giorno. E noi siamo e saremo un modello, come ricorda Alessandro Manzoni nei “Promessi Sposi”.
Infine. Un piccolo flashback della memoria.
Un giorno ero disperso tra le labirintiche calli, inabissato nel reticolo dei rii veneziani. Vagavo senza il minimo senso dell’orientamento alla disperata, affannosa ricerca dell’indirizzo dello studio di una perita calligrafa. Ed incontrai Albert Gardin.
Quello era veramente un momento molto duro della mia vita, uno dei tanti. Qualcuno mi aveva fatto del male, per bieco interesse personale: imbattermi in Albert lo lessi come un chiaro segno del destino. E infatti lui mi condusse dritto alla meta. Come chi conosce a menadito la strada da fare, senza bisogno di scorciatoie o sotterfugi, per arrivare a destinazione. Il luogo del nostro destino.
Amare il proprio destino, assumerne tutto lo spazio di libertà e responsabilità: questa è, forse, la “ventura delle venture”.
Vedete. Quello che tiene oggi il centro della scena e la domina è solo un impotente crepuscolo. La politica che ci viene propinata è fatta di caligine, sconfitte e corruzione. La politica presente, insomma, non ha cielo ed è senza giustificazioni, che non siano la paranoica conquista del potere e l’angustia dell’ambizione di conservarlo a ogni costo. Perciò essa è ridotta ormai a “vuoto ed inganno”.
Insinuare in questo artificio e disordine, la naturalezza – disarmante ma non disarmata – della propria mite unicità.
E questa unicità, esclusiva ma includente, poi condividerla con il prossimo. Quindi offrirla in dono alla comunità per farne maturare, nel cuore caldo che batte al suo interno, la freschezza di nuovi e generosi fermenti. E senza pretendere le luci del successo. E senza temere l’ombra della solitudine.
Ecco, proprio questo credo sia il dovere di chi crede ancora nella politica come avventura civile. E Albert Gardin credo che questo e non altro provi a fare, ogni giorno, nei modi colti e gentili che gli sono propri. Persino correndo il rischio della presa in giro, pur di fare vincere il fascino di una rivelazione.
Peraltro, ad Albert non si richiedono gesti incandescenti. Non servono immaginazioni eccessive. Credo basti la provocazione della coerenza, mai abbastanza.
Non dimentico che in tutta la storia e in tutte le geografie sono disseminate le macerie del troppo della politica.
Scrive Oscar Wilde: “L’unico dovere che abbiamo verso la storia è di riscriverla”.
Un uomo che conosce la pazienza dell’attesa, senza cedere alle lusinghe zuccherose della nostalgia. Soprattutto un uomo che sa come dare corpo solido e spirito indomito a quel che scriveva il grande poeta Eliot
“Per noi non c’è che tentare / Il resto non ci riguarda”.